Napoli tra la peste 1656 e il covid1919

Napoli tra la peste 1656 e il covid1919

Napoli tra la peste e il Covid-19. 1656-2020

 

Leggendo I Promessi Sposi, nei capitoli in cui Manzoni descrive la peste di Milano è possibile ritrovare sé stessi. L’umana povertà, che si tratti della povertà materiale, che tanto spesso si accompagna a una modesta capacità di descrizione dei propri pensieri dovuta a sua volta ad un lessico scarno ed essenziale, o che sia invece una miseria mentale, patrimonio di coloro che pur avrebbero potuto, avendone i mezzi, ma tuttavia non hanno coltivato non tanto la propria istruzione quanto la propria intelligenza, questa povertà, la povertà di spirito, infine, è compagna delle moltitudini.

La peste si abbatté su Milano e i paesi lombardi nei primi decenni del ‘600, probabilmente veicolata dalla soldataglia che calava dalle Alpi al soldo di questo o quel pretendente al ducato di Mantova, episodio piccolo, eppur tanto grave, nel più generale contesto della guerra cosiddetta dei Trent’anni.

Le pagine manzoniane sono indimenticabili per la felicità delle descrizioni, l’esattezza del racconto e, difficile accostamento, la leggerezza della prosa. Manzoni è veloce nella cronaca, quanti ammalati, quanti morti, quanti (pochi, pochissimi) guariti. Indugia, invece, nella descrizione della mente umana intesa sia nel senso dei sentimenti che muovono ciascun singolo individuo, sia della moltitudine che, lì in quel tempo, così come tanto spesso osservato, diventa a sua volta, e si comporta infatti come un sol uomo.

All’apparire dei primi segni di epidemia, in teoria non difficili da interpretarsi, in quanto almeno in parte attesi, essendo la peste presente, seppure a ondate brevi, nei paesi confinanti, la Spagna, le Fiandre, la Sardegna, il comune sentire dei Lombardi non fu quello di stringersi per affrontare la tremenda minaccia ma, al contrario, fu di negare tenacemente che tale minaccia esistesse davvero. Atteggiamento apparentemente suicida e tuttavia fortissimamente radicato nel comune sentire. Se si vuol considerare che di solito gli interessi delle classi dirigenti solo raramente coincidono con quelli delle plebi risulta quantomeno singolare che plebi e nobiltà, insieme, si siano date reciprocamente forza nel negare una evidenza così luminosa. Le prime morti, certo, si verificano nei quartieri e nei vicoli di alta densità, ove la promiscuità, l’affollamento e le precarie condizioni igieniche sono un terreno fecondissimo per il propagarsi dei contagi. Alle prime sembra infatti che detto contagio sia di assoluta ed esclusiva pertinenza del popolo minuto e che le classi aristocratiche ne siano esentate, e non tanto per le diverse condizioni di vita quanto per decreto divino. Perché, dunque, seminare paura tra le masse quando la vita può continuare a scorrere sui suoi binari e con essa i commerci, gli affari, quando alla fin fine il problema di cui si parla altro non è che qualche poveraccio che si spegne nella misera confusione della sua abitazione? E se qualcuno tra i popolani, uno più sveglio o più accorto, ne chiedesse conto, nell’intuizione o nella reale constatazione che qualcosa di grave e terribile stia di fatto accadendo, ebbene il suo interlocutore principale lo troverà nel clero, in chiesa, alla messa. La chiesa ha gioco facile nel farsi interprete dei disegni divini, aggiustandoli secondo le convenienze politiche. Niente da fare: se il parroco la racconta così, che è il Signore a punire con queste morti il popolo, distratto e peccatore, risparmiando invece l’illuminato sovrano, al povero intelligente popolano non resta che chinare il capo e ritirarsi in buon ordine e ancora gli va bene se non si trova un anatema appioppato alla schiena.

 

Napoli 1656

La peste era in Sardegna. La cosa era risaputa al punto che il governatore di Napoli e della sua provincia aveva da tempo imposto il blocco a tutte le navi che provenissero dall’isola infetta, chiudendo il porto alle navi sarde. Il governatore era un uomo di polso, un tipo deciso, restio ad ascoltare i consigli di sedicenti sapienti, uomini di scienza, che di poca o nulla considerazione erano infatti tenuti nelle sue scelte, preferendo affidarsi all’istinto, che, a suo dire, mai l’aveva tradito. Tuttavia una nave attraccò, con un paio di soldati spagnoli che poco dopo essere sbarcati si ammalarono di una febbre misteriosa e scomparvero. Pochi giorni dopo, nel quartiere detto del Lavinaio, adiacente alla Piazza del Mercato, centro nevralgico, commerciale e politico della Napoli dell’epoca, si ammalò, e rapidamente morì, un giovane fannullone, un pigro, poco osservante le pratiche devozionali. Questo giovane era indebitato con un vicino di casa, un usuraio, noto per essere sordo a qualsiasi pietà nella riscossione dei suoi interessi, un uomo cattivo, senza Dio. Incurante delle lacrime e delle strilla della povera madre in lutto questo tale si presentò a casa del morto per esigere, in cambio del denaro che ormai considerava irrimediabilmente perduto, due materassi che, senza por tempo in mezzo, si arrotolò e si portò a casa sua. Nei giorni a seguire si ammalò e morì la mamma del giovane. Poi si ammalò, e morì in pochi giorni l’usuraio, poi la moglie di questi. Alcuni sintomi insospettirono un bravo dottore che viveva e lavorava tra la povera gente del quartiere. Il suo nome era Giuseppe Bozzuto e prestava il suo servizio nella Casa Santa della SS. Annunziata.  La febbre si presentava altissima, a crisi violente, accompagnata da brividi squassanti, a sudore forte e ad una sete inconsolabile. Poco prima del momento fatale in alcune sedi del corpo, in particolare il cavo delle ascelle o l’inguine, il nostro dottore aveva notato il comparire di grossi bubboni violacei. Bisogna dire che il dottor Bozzuto era un personaggio molto amato, ascoltato e stimato da tutti. Quando non era di turno in ospedale girava nei vicoli del Lavinaio col suo bastone, seguito da un codazzo di monelli, entrando in tutte le case a portare consiglio e conforto. Diversi monelli ricordavano di aver assaggiato di quando in quando il bastone del dottore ma questi restava una figura paterna e sinceramente amata. Il dottor Bozzuto capì che questa successione di morti, tutte fulminanti, tutte uguali, in persone a strettissimo contatto tra loro non poteva che essere un contagio. I segni della pelle e i sintomi in genere della malattia l’avevano convinto di trovarsi davanti a dei casi di peste. Un altro al suo posto sarebbe stato cauto, avrebbe forse dissimulato e avrebbe tenuto per sé quelle considerazioni, plausibili ma non certe, frutto, per ora, di processi mentali personali. Non così Giuseppe Bozzuto. No, lui si espose in arringhe pubbliche, battendo con forza il suo bastone sulle pietre della Piazza del Mercato davanti alla folla muta e scettica. Non fu creduto. La verità, dispiace dirlo e tuttavia agli occhi delle moltitudini non vi era alcun dubbio, era la giusta e inevitabile punizione divina, e c’era da aspettarselo. Bisogna infatti sapere che proprio in quei vicoli, in quelle povere case, non più di qualche anno prima si era compiuta infatti la vita e l’avventura del più diabolico anticristo del secolo. Masaniello era nato lì, l’uomo che aveva osato sfidare la nobiltà e il clero, che aveva sfidato quindi, per ovvia estensione, Iddio stesso e che per queste abominevoli colpe era stato giustamente condannato a morte e santamente impiccato proprio al centro di quella stessa piazza. E dov’era nato Masaniello se non in quella casa? Ma non vedete, tentava il povero dottore di far ragionare i suoi interlocutori, il filo che lega i morti? Il giovane, la mamma, poi l’usuraio che si prende i materassi del morto, poi la moglie dell’usuraio? non vedete? E non vedete voi, dottore, rispondevano quelli, o dovrei dire piuttosto quelle, essendo molte le donne che si affollavano in questi dibattiti, non vedete voi che invece è il Signore che determina tutto? Quell’usuraio era un senza Dio ha avuto il suo, quell’altro, il giovane, era figlio di uno dei primi compagni di Masaniello, la madre è stata poi punita proprio per averlo messo al mondo. Non se poteva uscire. L’ipotesi diciamo così, divina delle morti che continuavano non nasceva senza un perché. Erano 10 anni, tanti ne erano passati dall’esecuzione del giovane rivoluzionario, che tutti i preti che esercitavano il loro ministero nelle chiese del quartiere continuavano a terrorizzare le folle dei fedeli con la minaccia appunto di punizioni tremende che si sarebbero abbattute, inesorabili, su tutti coloro che a qualsiasi titolo avessero avuto commercio con Masaniello e il manipolo di disperati senza Dio che l’aveva sciaguratamente seguito. La punizione verrà e sarà terribile. Questo era stato martellato incessantemente da anni da tutti i frati, i preti, i parroci ogni domenica, da ogni pulpito si ascoltava la stessa litania. Aspettatevi il castigo. Pentitevi e tremate. Ma il dottor Bozzuto non era uno che si arrendesse. Le morti nel quartiere stavano infatti continuando, al primo piano in quella casa lì, poi al secondo piano… poi al palazzo accanto… poi ancora e ancora. Il dottore era preoccupato per i suoi pazienti e per sé, com’è ovvio, e tuttavia non negava alcuna visita, era sempre lì. Pretendeva però di essere ascoltato e insisteva a gridare che era la peste, che bisognava chiudere le case infette, che le chiese e i punti di raccolta popolare come i mercati e le processioni dovessero essere banditi e chiusi. Tanto gridò che le sue grida arrivarono all’orecchio di un messo della casa reale che ne informò i suoi superiori e questi i loro, su, su, fino al re in persona. Pochi giorni dopo una carrozza scura si fermò davanti alla abitazione del dottore. Alcuni gendarmi lo presero di forza e lo trascinarono nelle prigioni della zona di porta Capuana. Il nostro dottore era già ammalato di peste, in cella si aggravò e quando era giunto il suo momento fu presa la decisione di rimandarlo a casa sua, che morisse nel suo letto. Così fu.

Il calvario di colui che sa, che, primo fra tutti, intuisce la gravità di ciò che sta per compiersi e che affonda, eterna Cassandra, nella generale incredulità, salvo poi essere riscattato nell’onore, come si dice, “alla memoria”, è un topos recidivante nella storia del rapporto tra uomo e natura. Molte piazze sono ornate da statue erette in memoria di persone che i loro contemporanei avevano condannato e deriso. La sorte amara del dott. Giuseppe Bozzuto è diversa solo in parte da quella del dott. Li Wenliang oculista cinese di Wuhan, che trovò nel carcere la ricompensa per aver lanciato l’allarme di una nuova e misteriosa epidemia che poi si scoprì essere il Covid-19. Carcere ove poi morì, nel dicembre del 2020, proprio di quella malattia, che in tal modo trovò la sua vendetta.

Napoli 1656, Wuhan, pianeta Terra, 2020. Abbiamo il responsabile politico decisionista, il blocco territoriale minacciato ma inefficace, abbiamo un’epidemia dall’esordio subdolo, abbiamo l’incredulità generale, pilotata da una classe dirigente ottusa e corrotta, abbiamo il martire. Tutto qui? No.

Abbiamo anche la dietrologia e il complottismo.

Nell’estate del 1656 l’epidemia era esplosa in tutta la sua terrificante potenza. Le chiacchiere ormai erano spente, come spenti, muti per sempre, erano ormai buona parte di coloro che le ravvivavano. I morti si contavano a decine di migliaia, non c’era alcuna possibilità di dare sepoltura non dico a tutti ma, non potendosi raggiungere, nei seppellimenti, neanche una percentuale quantomeno dignitosa, alla fine si decise di non darla proprio a nessuno più. I cadaveri si ammucchiavano dappertutto, nessuno si dava la pena almeno di raccoglierli né di spostarli e le vie maggiori ne erano soffocate. Poche carrozze ancora osavano avventurarsi tra le vie della città, e si racconta delle grandi ruote di legno e degli zoccoli dei cavalli che passavano a sbalzi e urti sopra i corpi abbandonati e dell’orrendo crepitio delle ossa frantumate e dei crani schiacciati. La peste era stata alla fine accettata, sia pure come punizione divina e l’incoscienza dei prelati aveva peggiorato le cose. Per accattivarsi la benevolenza dei Cieli erano state indotte processioni e messe speciali che altro esito non avevano avuto se non quello di moltiplicare il contagio tra la folla dei fedeli. Più si pregava più si moriva. E la colpa fu alla fine trovata. Probabilmente non doveva essere la questione di Masaniello, in quel caso forse i Te Deum sarebbero stati d’aiuto. No. Il nemico era la Spagna. Sissignore, la Spagna. I soldati, “quei” soldati erano spagnoli e la Spagna era nemica del Regno di Napoli per le diverse politiche nei confronti del papato. Ecco fatto. La strage dei napoletani era stata pianificata e realizzata dalla nemica Spagna per neutralizzare il Regno di Napoli e costringerlo a venire a patti.

Come tutte le epidemie anche la grande epidemia di peste del 1656 finì. Aveva ucciso un terzo della popolazione napoletana, circa 200-250.000 persone in pochi mesi.

Perché raccontiamo tutto ciò. Le similitudini tra la peste del ‘600 e il Covid del 2020 sono davvero così lampanti da rendere questo scritto indispensabile? certo, no. Basta guardare i numeri. E tuttavia se confrontiamo l’esperienza della Napoli del 1656, quella di Milano di qualche anno prima, così ben descritta da Alessandro Manzoni e la cronaca planetaria di questi mesi troviamo degli spunti non giornalistici, no, che c’è chi se ne occupa e trova lettori interessati. Spunti se ne possono trovare, piuttosto, filosofici, legati alla psicologia sociale. Dove portano?

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